La tempestiva predisposizione delle bozze dei Testi Unici della riforma fiscale e l’apprezzabile apertura al pubblico degli addetti ai lavori di queste bozze e in vista dell’ulteriore seguito parlamentare hanno riacceso speranze di un qualche significativo miglioramento qualitativo degli elaborati nomopoietici sinora “cantierati” e di quelli ancora in fieri.

Non ostante l’ottimismo manifestato (pur con debite riserve) in dottrina (v., in successione diacronica, A. Giovanardi, “Testi unici e codice tributario, una strada da percorrere con convinta determinazione”, M. BasilavecchiaTesti Unici della riforma fiscale vs Codice tributario: qualche considerazione va fatta” e L. Rita Corrado, “Testo Unico sulla giustizia tributaria: certezza del diritto a rischio?”), allo stato non è facile trovare in questo restyling di coordinamento in Testi Unici un significativo “cambio di passo” e reali segni di superamento delle vistose criticità e aporie riscontrate nei decreti legislativi n. 219/2023 e n. 220/2023 sullo Statuto dei diritti del contribuente e sul Contenzioso tributario (il quale ultimo ne risulta in effetti così deformato, da meritare il declassamento da processo a contezioso, per l’appunto, più di stampo amministrativistico che giurisdizionale).
Senza ripetere quanto già criticamente scritto e riscritto sui temi di maggior spessore in negativo (come quelli, ad es., dell’autotutela – obbligatoria o facoltativa, della conversione della delibazione cautelare in decisione sommaria di merito con sentenza semplificata, e dei “nova” (motivi e prove) in appello, si ritiene qui opportuno ancora richiamare l’attenzione dei Lettori, fortemente dubitando di responsabili ascolti nelle c.d. sedi ufficiali, su quella mini disposizione infelicemente insediata quale “comma 6-bis” del novellato art. 14, D.Lgs. n. 546/1992, ove, con malcelata nonchalance si dispone che “in caso di vizi della notificazione eccepiti nei riguardi di un atto presupposto emesso da un soggetto diverso da quello che ha emesso l’atto impugnato, il ricorso è sempre proposto nei confronti di entrambi i soggetti”.
Già si era messo in luce (v. il mio Editoriale “Sulla riforma della riscossione fiscale rimangono cruciali antinomie”) la plateale antinomia di siffatta disposizione (nella quale alla fin fine si configura una fattispecie di litisconsorzio necessario tra i giudizi aventi ad oggetto l’impugnazione di un atto esattivo imponendosi l’instaurazione iussu legis di un giudizio nondum natum sulle spalle di un giudizio avente ad oggetto un atto presupposto, qualora in esso venga soltanto dedotto un vizio di notifica dell’atto prodromico) con la norma, tuttora vigente (art. l’art. 39, D.Lgs. n. 112/1999), ove in direzione specularmente opposta si dispone che l’agente (olim concessionario) della riscossione, “nelle liti promosse contro di lui che non riguardano esclusivamente la regolarità o la validità degli atti esecutivi, deve chiamare in causa l’ente creditore interessato; in mancanza risponde delle conseguenze della lite”. In tal modo stabilendosi tra l’ente impositore e l‘agente della riscossione un rapporto di sostituzione processuale che costituisce proprio l’antitesi del litisconsorzio necessario, in quanto la sentenza emessa nei confronti del sostituito o sostituto, o viceversa, si estende automaticamente nei confronti dell’uno e dell’altro dei due soggetti, mentre nel caso del litisconsorzio necessario, la sentenza è inutiliter data, non vale, cioè, nei confronti di nessuno dei soggetti, se non resi formalmente parti di uno stesso processo.
Il che appare tanto più inconcepibile oggi perché la legge delega n. 111/2023 prevede, invece, il radicale superamento della dualità tra Agenzia delle Entrate ed agente della riscossione, destinato quest’ultimo ad essere normativamente assorbito nell’Agenzia delle Entrate, anche a seguito dell’autorevole monito espresso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 120/2021.
Se solo si pone mente a cosa comporta sul piano disciplinare configurare i giudizi sull’atto presupposto e su quello successivo in termini di litisconsorzio necessario, con risvolti, non solo soggettivi, ma anche oggettivi su entrambi, con eventuali spostamenti di competenza originariamente distinte e poi riportati ad unità di processo e di apparati organizzativi diversamente dislocati, conseguenze annullatorie in ogni stato e grado anche d’ufficio per il caso di mancata integrazione del contraddittorio e così via, non è chi non veda la manifesta incongruità della scelta fatta dal legislatore della controriforma, che, per risolvere (apparentemente) un problemino piuttosto semplice di sanatoria di un frequente (fors’anche abusato) vizio di notifica, si è inventato impropriamente un meccanismo processuale dirompente, che rischia di danneggiare (anziché favorire) la sola Amministrazione finanziaria e complica enormemente il lineare flusso dei processi, andando anche contro il principio costituzionale della loro ragionevole durata (art. 111, comma 2, Cost.).

Non è tutto.

Questo “fantastico” comma 6-bis dell’art. 14, D.Lgs. n. 546/1992, così com’è stato novellato non si riferisce solo ai giudizi tra ente impositore ed agente della riscossione; ha portata generale, riguardando ogni rapporto tra atti presupposti e atti successivi e incide, addirittura, sulla grundnorm costituita dall’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992. Il cui comma 3, così come oggi congegnato, prevede che “la mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili, adottati precedentemente all’atto notificato, ne consente l’impugnazione unitamente a quest’ultimo”, e la norma sta, in tal modo, a significare, com’è stato autorevolmente statuito dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, che il contribuente, nell’impugnare un atto denunciando un vizio di notificazione dell’atto presupposto, può (“ne consente”), ma non “deve” (necessariamente) impugnare l’atto precedente a quello notificato. Mentre, ora, il comma 6-bis prevede esattamente il contrario “imponendo” l’impugnazione cumulativa dei due atti.

Di fronte a tutte queste sconvolgenti consequenzialità, sembra dunque che l’attuale legislatore abbia davvero dimenticato il principio di proporzionalità, o, se si vuole, ogni elementare buon senso.

Figurativamente parlando, il temerario tesmoteta che ha avuto la “bella” idea di “partorire” questo “sciagurato” comma 6-bis è, in buona sostanza, paragonabile a quel tipo di soggetto che per spegnere le bruciature di un foglio di carta in una cantina concepisce l’idea di alluvionare l’intero caseggiato di dieci piani.

Di siffatto tesmoteta il pur deformato “contenzioso tributario” non aveva proprio bisogno!

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